Per tutti gennaio è diventato il mese della Memoria. A gennaio escono le novità: libri, film. A gennaio le scuole, le istituzioni si riattivano e organizzano ciascuna qualcosa. Trovo la cosa positiva, se la vediamo come un appuntamento prezioso per chi non è ebreo. Chi è ebreo sa già cosa è successo nei lager. Chi è ebreo ha sempre o quasi sempre almeno un parente che racconta, e almeno un parente che è stato ucciso nella Shoah. Gli ebrei non hanno bisogno in fondo del Giorno della Memoria, perché loro quella memoria la coltivano tutto l’anno, inevitabilmente. Del Giorno abbiamo bisogno noi che ebrei non siamo: è semplice ricordare le proprie sofferenze, ma ricordare quelle di un altro, e i motivi che le hanno generate, è un passaggio decisivo per essere più umani.
Una parte del dibattito si è anche concentrata sull’opportunità di avere un giorno dedicato. Per me è più interessante riflettere sul “come”, perché dentro di me è stimolante l’idea di avere un appuntamento, per lavorare tutto l’anno. Penso per esempio che la data scelta (il 27 gennaio) sia sbagliata perlomeno dal punto di vista simbolico: quella è la data della liberazione del più grande lager nazista, ma è una liberazione venuta da fuori, quasi capitata per caso nel flusso della guerra e nemmeno pianificata, voluta. Dopo quella data i lager in Germania hanno continuato a operare e a uccidere. È una data che non rappresenta gli sconfitti, i resistenti, ma solo un episodio.
Per chi si occupa di Shoah per 365 giorni, quello della Memoria non è un giorno tanto diverso dagli altri. Trovo giusto che lo sia, però, per chi durante l’anno si occupa di altro: per questo motivo il “come” mi interpella. Non voglio che diventi un giorno sprecato.
Auschwitz, Napoleone, le Guerre Puniche… sono eventi assimilabili a un generico passato lontano. Per noi che abbiamo conosciuto qualche testimone, per noi che abbiamo avuto i nostri nonni in guerra, gli eventi attorno alla Seconda guerra mondiale non appaiono lontani. Ci sono familiari perché parte della nostra storia. La generazione dopo di noi non ha questa percezione del passato. Il passato è passato, punto. Guardarsi indietro, nella mentalità diffusa, sembra poi una operazione noiosa, inutile; ma chi fa didattica della Memoria sa anzitutto che non deve giudicare. Quando si è giovani, quando si è ragazzi, credo che la storia non vada conosciuta con lo sguardo degli storici, ma con lo sguardo della passione. È impossibile per un ragazzo immaginare cosa accadde in Europa settant’anni fa, ma a pensarci bene è impossibile anche per noi che siamo nati negli anni Sessanta o Settanta. È un percorso che siamo destinati a fare insieme, noi e i ragazzi. La storia interpella entrambi, prova a raccontarci cosa è accaduto ai nostri coetanei venuti prima di noi. La storia è da ascoltare, prima ancora che da studiare o da capire. E per ascoltarla a volte c’è bisogno di aiuto.
Prima o poi raccoglierò in un libro le frasi che nel tempo ho sentito, che nella maggior parte dei casi sono buffe. I ragazzi e i giovani non mi spaventano in questo senso, perché i negazionisti, quelli veri, sono tutti adulti. I giovani respirano un clima e, a volte stupidamente, se ne fanno portavoce. Un giorno, poco prima di entrare in una classe di quinta superiore, la professoressa mi avvisò: “Attento, due di loro sono affiliati a un club di estrema destra. Te ne accorgerai”. Pensai che poteva anche dirmelo prima, ma che non sarebbe stato un problema. Nel dibattito che ne seguì non arrivammo ai ferri corti ma di certo mi accorsi subito chi fossero quei due. Prendila così: a me sono stati simpatici. Anche se avevano idee balorde (ascoltate dagli adulti), anche se provavano a negare i numeri della Shoah pasticciando con la storia (come fanno i negazionisti). A me erano simpatici, perché con loro si era stabilito in qualche modo un confronto, pur teso, e un dialogo. Io di certo non sono stato simpatico a loro, e nemmeno avrei voluto. Ma loro sì, forse mi sono piaciuti più dei loro compagni che hanno passato quell’ora con le orecchie spente.
Mi sono affezionato a Terezín Nel gennaio del 2003 ero partito per passare alcuni giorni a Praga, a casa di mio fratello. Lui si era trasferito là tre mesi prima, per lavoro. In quei giorni pensai che a poca distanza c’era il ghetto di Terezín: lo conoscevo perché lo avevo studiato, conoscevo le storie dei ragazzi e dei deportati ebrei che vi abitarono loro malgrado, ma non ero mai andato a visitarlo. Decisi che sarei partito per vedere il ghetto, e lo feci in un giorno di tempo terribile, una nevicata fortissima aveva colpito la città e la zona: presi il pullman (il numero 17, neanche a farlo apposta) e viaggiai per un’ora nelle campagne praghesi, bianche e piatte, fino a Terezín. Scesi nella tormenta, camminai per quelle strade, mi abbandonai su una panchina dopo aver spostato una bracciata di neve. Non durò più di un minuto, ma capii restando là seduto che Terezín mi stava ascoltando. E io avevo voglia di parlargli. Avevo Terezín intorno a me: ci ho messo del tempo, ma dopo un po’ sono anche riuscito ad ascoltarlo io.
Mi sono affezionato: forse ognuno di noi dovrebbe farlo con un luogo del passato. Vero, di solito ci si affeziona a luoghi meno sinistri. A Terezín però vedo la speranza più della morte, vedo le storie di chi ha resistito, in tanti modi diversi, ci vedo le loro lotte, ci vedo il dolore indicibile. Ma ci vedo anche la forza che nessun luogo ci trasmette, ma quegli uomini e quelle donne sì; una forza che nessun libro contiene, ma quei ragazzi sì; una forza che è riuscita a non farsi inghiottire del tutto dai nazisti, non è rimasta perduta nel passato. È ancora qui, la senti?
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Ndr
Matteo Corradini è autore de “La repubblica delle farfalle”, la toccante storia dei ragazzi del ghetto di Terezin, un inno alla vita contro gli orrori e la violenza del nazismo
Una voce lucida e impietosa, una prima persona che sa mescolare il dolore e la poesia per raccontare in forma di romanzo la storia dei bambini e dei ragazzi rinchiusi nel ghetto di Terezin: prima della deportazione verso i campi di sterminio, sono impegnati nello sforzo di mantenere una parvenza di normalità in una vita che di normale non ha più niente. Un gruppo di adolescenti reagisce alle violenze, ai soprusi, alla paura dell’inevitabile mettendo insieme un giornalino con i contributi di tutti, anche i più piccoli: disegni, poesie, rubriche, recensioni. Così le riunioni di redazione diventano un momento prezioso per scambiarsi pensieri e timori ma anche per dare spazio alle aspirazioni e ai sogni.
(dal sito dell’autore)