Le otto montagne

Non è una biografia anche se è scritta con uno stile che potrebbe indurre il lettore a crederlo. Non è un romanzo di avventura anche se di avventura ce n’è più d’una. Non è nemmeno una saga famigliare anche se si parla di rapporti. Non è nulla di tutto questo, o forse è un po’ tutto questo, ben infulcrato attorno al tema dell’amicizia. Sono tanti i buoni spunti per rilfettere lungo le pagine del romanzo, ma, non so come, questo passaggio mi è rimasto impresso.

– Il modo in cui arrivava la notte in luglio, scendeva con calma, ti ricordi? Era l’ora che mi piaceva di più, e poi quando mi alzavo per mungere che era ancora buio. Loro due dormivano e io mi sentivo come se vegliassi su tutto quanto, come se loro potessero dormire tranquille perché tanto c’ero io.
Aggiunse: – È stupido, eh? Ma è così che mi sentivo.
– Non ci vedo niente di stupido.
– È stupido perché nessuno può occuparsi degli altri. Occuparsi di se stessi è già un’impresa. Un uomo è fatto per cavarsela sempre, se è bravo, ma se si crede troppo bravo finisce che va in rovina.
– Troppo bravo vuol dire mettere su famiglia?
– Per qualcuno forse sì.

Per alcuni versi mi restituisce sensazioni analoghe a quelle che mi generò il monologo finale di Novecento nel quale il protagonista dichiara tutta la sua incapacità di vivere una vita oltre quella in cui il destino lo ha collocato: tra la prua e la poppa di una nave. Qui Bruno si supera nell’individuare due differenti limiti: uno geografico che lo colloca in altezza, incapace di separarsi dai pendii e dalle pareti su cui è nato; l’altro ideologico che gli impedisce anche solo di immaginarsi in una condizione differente da quella dell’uomo selvatico protagonista di tante leggende del suo territorio.
Mi rimane ancora da capire se «Avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?».

Le otto montagne
Paolo Cognetti
Einaudi

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